
Bimbamarea, bimbameraviglia
Ero appena uscito dall’ennesimo colloquio di lavoro.
Stavolta era stato il turno di un’ agenzia di dialogatori: ossia gente assunta in piena regola e profumatamente pagata per parlare. La scrutinatrice ci aveva riempito le orecchie di parole per tre lunghe ore, informandoci su ogni dettaglio della professione del retore provetto. Ma se lei aveva sciorinato un fiume di saliva lungo quanto il Serpente della Creazione, noi nono eravamo stati da meno. Costretti a fingerci buoni oratori, per un paio d’ore avevamo tolto la briglia alla lingua, sfoderando tutto il nostro fiato e la parlantina più ardita.
Iniziava a piovere. Dal portico vedevo la luce riflessa nelle gocce d’acqua che si affollavano nel cielo. Ero imbronciato con il Caso per quell’evenienza umida e non calcolata. Tuttavia fui grato di uscire da quell’asfissiante colloquio. Che meraviglia! In due passi, scivolare dalla voce della mia bocca e di quella di tutti gli altri dritto nel silenzio.
Ringraziai l’aria fresca di smog e salii sul bus, diretto a casa, dove mi aspettava un bagno rilassante dopo ore di parlare forzato. Chissà se mi avrebbero assunto. In realtà conoscevo già la risposta.
Appena salito a bordo del 61 mi sentii subito strano. Mi voltai.
E ci caddi per la prima volta. La prima di numerose altre volte susseguitesi nell’arco di pochi minuti.
Una ragazzina mi guardava dalla seggiola. Era seduta vicino al finestrino, avrà avuto sicuramente meno di 20 anni. Forse se arrivava a 18 era già tanto. Madonna, che giovane. Mi colpì il modo in cui mi fissava: le sue iridi come due gocce mi inchiodavano al finestrino opposto. Lo smalto sulle dita era color bordeaux, lucido e come appena dato. Potevo sentire l’odore delle setole del piccolo pennellino dì applicazione se solo mi sforzavo.
Lei sbirciava con le sue minuscole manine i messaggi sul cellulare…forse. O forse stava solo temporeggiando tenendo le mani occupate, cercando di darmi una piccola occhiata curiosa. Vicino a lei una signora di una sessantina d’anni parlava di Torino com’era nel periodo della sua adolescenza. Le parole calme e di un’altra epoca si facevano molli, mentre la bimba si moveva tra uno sguardo annoiato fuori –alla pioggia- ed uno dolcissimo, indirizzato me, che stavo vicino all’uscita.
Due occhi azzurri. Questo ho visto, inequivocabilmente. Due occhi azzurri ricolmi del cantilenante suono dell’acqua. Delle rive giovani li dentro si perdevano chissà dove. In maniera così soave.
Nella profondità di un mare verde e infinito.
Gli occhi della piccola erano così magnetici e irresistibili da richiamarmi ed incollare le mie iridi alle sue. Poi, come lo schiocco che arriva al limite di una corda tesa, fui costretto a distogliere d’istinto lo sguardo da lei. E sorridevo, piano, increspando appena gli angoli della bocca. Mi veniva spontaneo, come se un assenso silenzioso mi fosse stato strappato da chissà quale misterioso e antico comandamento.
Sentivo l’elettricità chimica dell’aria prima della mareata. Mi sarei seduto vicino a lei se non ci fosse stata la signora – che in ogni caso svolse in quel momento un ruolo fondamentale. Un’incarico importantissimo commissionatole di sicuro da qualche angioletto proprio per me, che già ardevo in quel fuoco d’acqua spuntato da chissà quale scoglio. Insultando il guidatore con la sua voce roca e acuta al contempo, con un’espressione ottocentesca caduta ormai in disuso, quella signora provocò la reazione della bambina. Che fece un sorriso. Non riesco a descrivere il tonfo di marea che mi è penetrato nel petto, proprio lì, sotto l’aorta. Le mie acque si ruppero: s’infransero contro il bianco di denti. E quelle piccole increspature agli angoli delle labbra rosa.. e la punta all’insu del suo naso ancora piccolo ed abbozzato, in piena crescita..
Come fu dolce l’ubriacatura di un attimo.
Come stare di sopra ad un mare che ti si spalanca sotto. Verde ed infinito.
Distolsi lo sguardo e ripresi i sensi.
Improvvisamente, il guidatore ci comunicò che in via Po era saltata una tubatura del gas. Saremmo rimasti bloccai sul bus per 20 minuti buoni. La sessagenaria urlò qualcosa in piemontese e scese dal pullman. Il posto accanto alla bimba di porcellana era libero.
Mi sedetti. Non avevo voglia di parlare. Lei era un po’ che mi osservava –ho già descritto cosa provai - e di tanto in tanto rideva. Mi sembrava però piuttosto timida, e nascondeva il tepore luminoso della sua bellezza dietro i capelli chiari, leggermente ricci ed increspati appena dall’umidità.
Provai a guardarla da vicino.
Una vampata iridescente, questa volta blu intenso come il lapislazzulo, mi riempì di nuovo. Non credevo che la potenza dell’acqua potesse inchiodarmi così. Che potesse scorrere nelle iridi azzurre di una bimba di porcellana e violarmi le ossa.
Chiusi gli occhi e gustai il sapore di oceano e di sale. Lo scoglio salmastro con appollaiati lì sopra anemoni e pomodori di mare. Lei ora sorrideva di sbieco, più a suo agio, al mio fianco.
Ancora nessuna voglia di parlare: tra il caos della gente snervata dall’attesa e dal traffico nuotavamo in due nel mare del silenzio. Due granchi abbandonati al volere della luna, al suo capriccio. Al crescere silenzioso della marea.
Al dì là, l’abisso profondo. Sciolto nella profondità dell’acqua verde, infinita
Le mie labbra chiuse.
Le sue chiuse, ma rosa e carnose –non troppo- quel tanto da provare un brivido al pensiero della carezza. Risacca salata sulla mia schiena – e un altro brivido, proprio all’altezza dei fianchi.
Mi accorsi che avevo una penna nella tasca del vestito bluette. Probabilmente l’avevo fregata al colloquio dei dialoganti. La presi in mano. Lei la guardò sistemandosi i capelli dietro l’orecchio e mi rivolse un sorriso stranito e curioso. La bellezza regnava serena e senza pietà dai contorni della bocca. Nulla ne era risparmiato. Bellezza disarmante e crudele.
L’ennesimo fiume di acqua salata mi scivolò lungo il collo. Mi venne facile chiedermi se lei era la Luna ed io la sua devota e affascinata marea.
Una bambola di porcellana dal meraviglioso potere elettrolitico.
E risvegliava, risvegliava
Sorrisi pacato. Schiacciai d’istinto il pulsante della biro e le feci il gesto di porgermi la mano. Stavolta provai a resistere a quegli occhi troppo azzurri e tersi e concentrai le mie pupille per inchiodarla al sedile. Dentro di me qualcosa sballottava ma riuscii a non farci caso.
Le rivolsi un invito con lo sguardo. Le sue ciglia mi strinsero nel miele, nel silenzio assoluto. Nel più candido silenzio. Il suo viso scrutava, enigmatico, la penna tra le mie dita, come a volerne scoprire il segreto. Dopo un po’ di esitazione divertita mi pose il braccio.
Sfiorai per la prima volta la sua pelle. Quanto era levigata.
Febbricitante le scrissi: Dove ti trascini sotto la pioggia? Tu che riesci a giocare col mare
Lei lese quelle due righe in blu sulla quelle carnagione chiara chiara. Le labbra si aprirono ma non usci suono alcuno. Solo un sorriso da star male : cosi potente da portarsi a largo tutti i tritoni e le barche del mondo. Tutto un mondo sommerso, via con sé, dentro quel sorriso.
Prese la penna e rispose sul mio braccio: da dove salti fuori?
La trovai una risposta davvero buffa. Le presi le mani: al contatto con le mie le sue dita erano calde e soffici. Giuravo che se avessi potuto succhiarle ci avrei ritrovato il sapore di sale portato a passeggio dalle conchiglie.
La punta della mia biro riprese a incidere delicatamente la parte morbida del suo braccio
La bellezza del mare ti è propria, e possiedi la grazia della porcellana.
Lei aggrottò le sopracciglia chiare. Mi aprì una ad una le dita serrate attorno alla biro; era ormai chiaro che quella penna fosse un delizioso sitar dalle melodie celesti, e noi due i suonatori -prescelti dal fato- che se lo passavano con felicità per goderne a vicenda.
Con la destra si sistemò l’orecchino di acquamarina. Mi girò la mano e me la tenne ferma, con dolcezza. Lei era li, vicinissima a me eppure a suo agio, Ne accarezzò il dorso.
Disegnò un fiore abbozzato ma di un’intensità tale da credere che avrebbe preso vita all’istante se annaffiato con un po’ di pioggia. O probabilmente sarebbe bastata una goccia del suo profumo oltremare. Un briciolo di sale oceanico distillato della sua essenza.
Poi sorrise di nuovo, assunse un’espressione da finta imbronciata e scrisse vicino al fiore: ..i pazzi non vengono fuori con la pioggia primaverile? proprio come i fiori
Non potei fare a meno di increspare le labbra in una smorfia divertita e guardarla in silenzio. In fondo aveva ragione ad essere preoccupata: un po’ pazzo lo ero, ma non era ancora primavera.
Il bus si fermò. Per un attimo chiusi le palpebre e ascoltai il colore delle foglie d’ottobre entrate dalle portiere posarsi sul pavimento di gomma.
Nel silenzio mi diede un bacio. Proprio sulla guancia
Ed il suo profumo turchese mi sublimò in un momento-
La sua fermata si avvicinava. Lo capivo dagli sguardi irrequieti che lei gettava ogni tanto al di là del finestrino. E una lieve malinconia ci sollevò in punta di piedi per strapparci al nostro tiepido sogno.
Le presi la mano sinistra. Disegnai un occhio affranto. E sotto scrissi, calcando dolcemente la punta della biro nella sua carne tenera di bimba: ti rivedrò ancora?
Lei si illuminò per un attimo ma non disse nulla.
Mi strappò per l’ultima volta la penna ma stavolta la gettò fuori dal finestrino, con un’espressione indecifrabile che mi fece trasalire. Poi mise la mano nella borsetta celeste. Prese un rossetto a forma di pescerosso, con una scritta nera. Mi guardò fissa per un minuto lunghissimo. Mi sentivo fiorire il sale lungo il viso, le alghe mi si arrampicavano sulla fronte e temetti di sprofondare nella potenza madreperla di quegli occhi.
Appoggiò il rossetto sulla sua bocca cosi bella. Lo smalto delle dita splendeva dalle punte e sembrava voler tuffarsi su quelle labbra. Le accarezzò con un movimento circolare. Poi strinse la mia mano tra le sue.
Nel silenzio chinò il capo e impresse sul dorso la dolce silhouette di un bacio.
Morbido e salato come il mare.
Portando con sè la risacca, quella bambina di tiepida porcellana sparì dall’autobus. E dalla mia vista.
Portandosi via ancestrali ricordi acquatici, trascinandosi dietro il ciclo delle maree
Così scomparve tra le onde della città in autunno.
Così mi innamorai di una bambina.
Ero appena uscito dall’ennesimo colloquio di lavoro.
Stavolta era stato il turno di un’ agenzia di dialogatori: ossia gente assunta in piena regola e profumatamente pagata per parlare. La scrutinatrice ci aveva riempito le orecchie di parole per tre lunghe ore, informandoci su ogni dettaglio della professione del retore provetto. Ma se lei aveva sciorinato un fiume di saliva lungo quanto il Serpente della Creazione, noi nono eravamo stati da meno. Costretti a fingerci buoni oratori, per un paio d’ore avevamo tolto la briglia alla lingua, sfoderando tutto il nostro fiato e la parlantina più ardita.
Iniziava a piovere. Dal portico vedevo la luce riflessa nelle gocce d’acqua che si affollavano nel cielo. Ero imbronciato con il Caso per quell’evenienza umida e non calcolata. Tuttavia fui grato di uscire da quell’asfissiante colloquio. Che meraviglia! In due passi, scivolare dalla voce della mia bocca e di quella di tutti gli altri dritto nel silenzio.
Ringraziai l’aria fresca di smog e salii sul bus, diretto a casa, dove mi aspettava un bagno rilassante dopo ore di parlare forzato. Chissà se mi avrebbero assunto. In realtà conoscevo già la risposta.
Appena salito a bordo del 61 mi sentii subito strano. Mi voltai.
E ci caddi per la prima volta. La prima di numerose altre volte susseguitesi nell’arco di pochi minuti.
Una ragazzina mi guardava dalla seggiola. Era seduta vicino al finestrino, avrà avuto sicuramente meno di 20 anni. Forse se arrivava a 18 era già tanto. Madonna, che giovane. Mi colpì il modo in cui mi fissava: le sue iridi come due gocce mi inchiodavano al finestrino opposto. Lo smalto sulle dita era color bordeaux, lucido e come appena dato. Potevo sentire l’odore delle setole del piccolo pennellino dì applicazione se solo mi sforzavo.
Lei sbirciava con le sue minuscole manine i messaggi sul cellulare…forse. O forse stava solo temporeggiando tenendo le mani occupate, cercando di darmi una piccola occhiata curiosa. Vicino a lei una signora di una sessantina d’anni parlava di Torino com’era nel periodo della sua adolescenza. Le parole calme e di un’altra epoca si facevano molli, mentre la bimba si moveva tra uno sguardo annoiato fuori –alla pioggia- ed uno dolcissimo, indirizzato me, che stavo vicino all’uscita.
Due occhi azzurri. Questo ho visto, inequivocabilmente. Due occhi azzurri ricolmi del cantilenante suono dell’acqua. Delle rive giovani li dentro si perdevano chissà dove. In maniera così soave.
Nella profondità di un mare verde e infinito.
Gli occhi della piccola erano così magnetici e irresistibili da richiamarmi ed incollare le mie iridi alle sue. Poi, come lo schiocco che arriva al limite di una corda tesa, fui costretto a distogliere d’istinto lo sguardo da lei. E sorridevo, piano, increspando appena gli angoli della bocca. Mi veniva spontaneo, come se un assenso silenzioso mi fosse stato strappato da chissà quale misterioso e antico comandamento.
Sentivo l’elettricità chimica dell’aria prima della mareata. Mi sarei seduto vicino a lei se non ci fosse stata la signora – che in ogni caso svolse in quel momento un ruolo fondamentale. Un’incarico importantissimo commissionatole di sicuro da qualche angioletto proprio per me, che già ardevo in quel fuoco d’acqua spuntato da chissà quale scoglio. Insultando il guidatore con la sua voce roca e acuta al contempo, con un’espressione ottocentesca caduta ormai in disuso, quella signora provocò la reazione della bambina. Che fece un sorriso. Non riesco a descrivere il tonfo di marea che mi è penetrato nel petto, proprio lì, sotto l’aorta. Le mie acque si ruppero: s’infransero contro il bianco di denti. E quelle piccole increspature agli angoli delle labbra rosa.. e la punta all’insu del suo naso ancora piccolo ed abbozzato, in piena crescita..
Come fu dolce l’ubriacatura di un attimo.
Come stare di sopra ad un mare che ti si spalanca sotto. Verde ed infinito.
Distolsi lo sguardo e ripresi i sensi.
Improvvisamente, il guidatore ci comunicò che in via Po era saltata una tubatura del gas. Saremmo rimasti bloccai sul bus per 20 minuti buoni. La sessagenaria urlò qualcosa in piemontese e scese dal pullman. Il posto accanto alla bimba di porcellana era libero.
Mi sedetti. Non avevo voglia di parlare. Lei era un po’ che mi osservava –ho già descritto cosa provai - e di tanto in tanto rideva. Mi sembrava però piuttosto timida, e nascondeva il tepore luminoso della sua bellezza dietro i capelli chiari, leggermente ricci ed increspati appena dall’umidità.
Provai a guardarla da vicino.
Una vampata iridescente, questa volta blu intenso come il lapislazzulo, mi riempì di nuovo. Non credevo che la potenza dell’acqua potesse inchiodarmi così. Che potesse scorrere nelle iridi azzurre di una bimba di porcellana e violarmi le ossa.
Chiusi gli occhi e gustai il sapore di oceano e di sale. Lo scoglio salmastro con appollaiati lì sopra anemoni e pomodori di mare. Lei ora sorrideva di sbieco, più a suo agio, al mio fianco.
Ancora nessuna voglia di parlare: tra il caos della gente snervata dall’attesa e dal traffico nuotavamo in due nel mare del silenzio. Due granchi abbandonati al volere della luna, al suo capriccio. Al crescere silenzioso della marea.
Al dì là, l’abisso profondo. Sciolto nella profondità dell’acqua verde, infinita
Le mie labbra chiuse.
Le sue chiuse, ma rosa e carnose –non troppo- quel tanto da provare un brivido al pensiero della carezza. Risacca salata sulla mia schiena – e un altro brivido, proprio all’altezza dei fianchi.
Mi accorsi che avevo una penna nella tasca del vestito bluette. Probabilmente l’avevo fregata al colloquio dei dialoganti. La presi in mano. Lei la guardò sistemandosi i capelli dietro l’orecchio e mi rivolse un sorriso stranito e curioso. La bellezza regnava serena e senza pietà dai contorni della bocca. Nulla ne era risparmiato. Bellezza disarmante e crudele.
L’ennesimo fiume di acqua salata mi scivolò lungo il collo. Mi venne facile chiedermi se lei era la Luna ed io la sua devota e affascinata marea.
Una bambola di porcellana dal meraviglioso potere elettrolitico.
E risvegliava, risvegliava
Sorrisi pacato. Schiacciai d’istinto il pulsante della biro e le feci il gesto di porgermi la mano. Stavolta provai a resistere a quegli occhi troppo azzurri e tersi e concentrai le mie pupille per inchiodarla al sedile. Dentro di me qualcosa sballottava ma riuscii a non farci caso.
Le rivolsi un invito con lo sguardo. Le sue ciglia mi strinsero nel miele, nel silenzio assoluto. Nel più candido silenzio. Il suo viso scrutava, enigmatico, la penna tra le mie dita, come a volerne scoprire il segreto. Dopo un po’ di esitazione divertita mi pose il braccio.
Sfiorai per la prima volta la sua pelle. Quanto era levigata.
Febbricitante le scrissi: Dove ti trascini sotto la pioggia? Tu che riesci a giocare col mare
Lei lese quelle due righe in blu sulla quelle carnagione chiara chiara. Le labbra si aprirono ma non usci suono alcuno. Solo un sorriso da star male : cosi potente da portarsi a largo tutti i tritoni e le barche del mondo. Tutto un mondo sommerso, via con sé, dentro quel sorriso.
Prese la penna e rispose sul mio braccio: da dove salti fuori?
La trovai una risposta davvero buffa. Le presi le mani: al contatto con le mie le sue dita erano calde e soffici. Giuravo che se avessi potuto succhiarle ci avrei ritrovato il sapore di sale portato a passeggio dalle conchiglie.
La punta della mia biro riprese a incidere delicatamente la parte morbida del suo braccio
La bellezza del mare ti è propria, e possiedi la grazia della porcellana.
Lei aggrottò le sopracciglia chiare. Mi aprì una ad una le dita serrate attorno alla biro; era ormai chiaro che quella penna fosse un delizioso sitar dalle melodie celesti, e noi due i suonatori -prescelti dal fato- che se lo passavano con felicità per goderne a vicenda.
Con la destra si sistemò l’orecchino di acquamarina. Mi girò la mano e me la tenne ferma, con dolcezza. Lei era li, vicinissima a me eppure a suo agio, Ne accarezzò il dorso.
Disegnò un fiore abbozzato ma di un’intensità tale da credere che avrebbe preso vita all’istante se annaffiato con un po’ di pioggia. O probabilmente sarebbe bastata una goccia del suo profumo oltremare. Un briciolo di sale oceanico distillato della sua essenza.
Poi sorrise di nuovo, assunse un’espressione da finta imbronciata e scrisse vicino al fiore: ..i pazzi non vengono fuori con la pioggia primaverile? proprio come i fiori
Non potei fare a meno di increspare le labbra in una smorfia divertita e guardarla in silenzio. In fondo aveva ragione ad essere preoccupata: un po’ pazzo lo ero, ma non era ancora primavera.
Il bus si fermò. Per un attimo chiusi le palpebre e ascoltai il colore delle foglie d’ottobre entrate dalle portiere posarsi sul pavimento di gomma.
Nel silenzio mi diede un bacio. Proprio sulla guancia
Ed il suo profumo turchese mi sublimò in un momento-
La sua fermata si avvicinava. Lo capivo dagli sguardi irrequieti che lei gettava ogni tanto al di là del finestrino. E una lieve malinconia ci sollevò in punta di piedi per strapparci al nostro tiepido sogno.
Le presi la mano sinistra. Disegnai un occhio affranto. E sotto scrissi, calcando dolcemente la punta della biro nella sua carne tenera di bimba: ti rivedrò ancora?
Lei si illuminò per un attimo ma non disse nulla.
Mi strappò per l’ultima volta la penna ma stavolta la gettò fuori dal finestrino, con un’espressione indecifrabile che mi fece trasalire. Poi mise la mano nella borsetta celeste. Prese un rossetto a forma di pescerosso, con una scritta nera. Mi guardò fissa per un minuto lunghissimo. Mi sentivo fiorire il sale lungo il viso, le alghe mi si arrampicavano sulla fronte e temetti di sprofondare nella potenza madreperla di quegli occhi.
Appoggiò il rossetto sulla sua bocca cosi bella. Lo smalto delle dita splendeva dalle punte e sembrava voler tuffarsi su quelle labbra. Le accarezzò con un movimento circolare. Poi strinse la mia mano tra le sue.
Nel silenzio chinò il capo e impresse sul dorso la dolce silhouette di un bacio.
Morbido e salato come il mare.
Portando con sè la risacca, quella bambina di tiepida porcellana sparì dall’autobus. E dalla mia vista.
Portandosi via ancestrali ricordi acquatici, trascinandosi dietro il ciclo delle maree
Così scomparve tra le onde della città in autunno.
Così mi innamorai di una bambina.
1 commento:
ciao Shiva.Sono rimasto senza parole......questo è un racconto bellissimo..i lettori amano immergersi nel dolce incastro anche per un attimo.....io per primo....
sei un grande scrittore...
non fermarti......
Saluti da Modena
Anto
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